Andrea Pasquali

Caso Fun Food. Tarasconi: “Rivedere i codici Ateco, non possiamo perdere un’eccellenza per un paradosso burocratico”

La consigliera Pd si è fatta carico delle sorti dell’azienda rivergarese leader nel settore dei pop-corn nei cinema, chiusi da mesi per la pandemia. Il suo codice Ateco la inserisce tra le aziende alimentari e non ha ricevuto alcun aiuto economico: fatturato crollato del 90%

«Chiediamo alla Regione Emilia-Romagna di impegnarsi con il Governo per trovare una soluzione che impedisca la chiusura della Fun Food di Rivergaro, gioiello imprenditoriale a livello nazionale e internazionale vittima di un paradosso burocratico legato ai codici Ateco»

La richiesta arriva con l’interrogazione presentata e illustrata oggi in aula a Bologna durante il question time dalla consigliera del Pd Katia Tarasconi, prima firmataria del documento insieme a numerosi colleghi. Un’interrogazione con la quale ha portato all’attenzione dell’Assemblea legislativa e della Giunta regionale la situazione, in effetti paradossale, dell’azienda rivergarese leader a livello nazionale e internazionale nel settore della produzione e della vendita di pop-corn. «Parliamo di un’azienda florida e sana – commenta Tarasconi -, un’azienda che crea occupazione e indotto e che in vent’anni è cresciuta costantemente arrivando a rappresentare un’eccellenza per il tessuto imprenditoriale nazionale piacentino, emiliano-romagnolo e italiano». La Fun Food guidata dall’imprenditore Marco Cassinelli in effetti ad oggi domina il mercato dei pop-corn nei cinema di tutt’Italia, negli stadi, nei parchi divertimento (Gardaland, ad esempio) con un prodotto di alta qualità grazie a materie prime selezionate e alla lavorazione direttamente nello stabilimento di Rivergaro, in Valtrebbia. Un mercato che, tuttavia, è stato completamente azzerato dal Covid-19. «Non ci sono altri motivi – precisa la consigliera dem – Non siamo di fronte a scelte imprenditoriali sbagliate, a mosse avventate, a strategie rischiose. Siamo di fronte a un settore che è stato del tutto paralizzato dalla pandemia».

Morale, un’azienda che nel 2019 ha fatturato quasi 5 milioni e 700mila euro si trova oggi, esclusivamente per effetto delle limitazioni dei vari DPCM, ad aver subìto un calo del fatturato che sfiora il 90%.

Con tutto ciò che ne consegue a livello occupazionale, ma non solo: «Se le Istituzioni italiane non si fanno carico di dare una mano a una realtà come la Fun Food – sottolinea Tarasconi – permetteremo ad aziende estere di subentrare in questo mercato. E alcune, tra le quali un’azienda tedesca, sono già pronte a farsi avanti non appena la morsa delle restrizioni verrà allentata. Non sarebbe solo un peccato, sarebbe proprio uno sbaglio colossale per il territorio e per il Paese».

Il paradosso dei mancati ristori alla Fun Food è legato al tema dei codici Ateco, e l’ha sottolineato oggi in aula la consigliera Tarasconi nell’illustrare l’interrogazione firmata dal Gruppo consiliare del Pd. «L’azienda rientra in teoria nella filiera della produzione e commercio di prodotti alimentari, come in effetti è. Peccato però che il mercato della Fun Food sia costituito interamente dal settore dell’entertainment. E’ in quel settore che l’azienda si è specializzata e negli anni si è costruita una posizione portando il suo fatturato a crescere regolarmente. Una crescita che ha portato a investire in competenze, in macchinari, in personale. Ed è proprio il settore dell’entertainment ad essere stato totalmente bloccato dall’inizio della pandemia. Un disastro totale per tutta la filiera».

Un paradosso del quale si rende perfettamente conto l’assessore Vincenzo Colla che, in risposta all’interrogazione, si è espresso in modo chiaro:  «Noi come Regione chiederemo formalmente al Mise e al Ministro del Lavoro di andare nella direzione di calibrare i codici Ateco sulla filiera. Se i ristori sono riconosciuti alla filiera dei cinema, dei teatri, degli stadi, dovranno essere presi in considerazione anche i fornitori di riferimento. Un sistema che si basa sui codici Ateco trasversali non reggerebbe».

Scuola, Tarasconi: “screening istantaneo per isolare i contagi senza interrompere le lezioni”

«La Regione Emilia-Romagna ha fatto un lavoro importante e oggi, con tutte le incertezze legate a un momento storico che nessuno di noi per fortuna aveva mai vissuto prima d’ora, possiamo dire di essere sufficientemente pronti ad affrontare l’inizio dell’anno scolastico avendo considerato tutti gli aspetti critici». E’ la valutazione della consigliera regionale del Pd Katia Tarasconi al termine della Commissione congiunta scuola e sanità che si è riunita questa mattina a Bologna alla presenza degli assessori competenti Paola Salomoni (Istruzione) Raffaele Donini (Sanità) invitati a fare il punto della situazione visto che, oggi più che mai, salute e istruzione sono temi legati a doppio filo.

«Ci sono ancora incertezze e dubbi – prosegue Tarasconi – anche perché il Governo centrale è in ritardo su molti aspetti che riguardano la scuola ormai a pochi giorni dalla prima campanella, e un ruolo fondamentale nella partita contro il virus lo avranno tutti i cittadini chiamati a un grande senso di responsabilità nel segnalare immediatamente le proprie condizioni di salute e quelle dei loro figli per consentire di contenere eventuali focolai. Ma quel che la Regione poteva fare in termini di allestimento e potenziamento della “macchina” di prevenzione e tracciamento, lo ha fatto». La consigliera dem si riferisce in particolare ai dati forniti dall’assessore Donini con riferimento ai test sierologici, ai test rapidi e ai tamponi. Dati che parlano di una “potenza”, nel caso fosse necessario, di circa 25mila tamponi al giorno sul territorio regionale. E’ l’obiettivo che la Regione si prefigge di raggiungere entro poche settimane partendo dagli attuali 10mila tamponi al giorno che diventeranno 15mila entro fine mese grazie agli accordi che si stanno definendo con le farmacie e i medici di base emiliano-romagnoli. Il potenziamento dello screening è stato pensato anche per il personale scolastico ad ogni livello e, in genere, per tutta la popolazione scolastica allargata che comprende studenti, genitori e parenti: «Avere la possibilità di accedere ai test e se necessario ai tamponi con risultati forniti in poco tempo – precisa Tarasconi – è la chiave per tenere sotto controllo la situazione soprattutto in un periodo come quello invernale, con i sintomi da covid che si sovrapporranno ai sintomi da influenza stagionale». E proprio questo è uno dei temi toccati dalla consigliera del Pd nel suo intervento in Commissione. Intervento al quale l’assessore alla Sanità ha risposto spiegando che quest’anno in Regione verrà aumentato del 40% il numero dei vaccini anti-influenzali disponibili in modo da ridurre ancora di più l’impatto del virus influenzale.

E sempre nel corso del suo intervento, Tarasconi ha parlato dell’abbassamento dell’età media dei contagiati rispetto all’inizio della pandemia quando il coronavirus sembrava colpire quasi esclusivamente le persone anziane: «Oggi la metà dei nuovi contagiati ha un’età compresa tra i 10 e i 29 anni, quindi è in questa fascia di età che dobbiamo concentrare i nostri sforzi in termini di sensibilizzazione. Anche in considerazione del fatto che moltissimi sono asintomatici». E in effetti basti pensare che a Piacenza, solo nella giornata di ieri, 9 settembre, sono stati effettuati 838 tamponi, 7 di questi sono risultati positivi e ben 6 asintomatici.

Un “problema”, questo degli asintomatici, difficilmente affrontabile. «Quel che possiamo fare è muoverci tempestivamente non appena si è di fronte a un caso di contagio accertato» dice Tarasconi. E con riferimento alla scuola, qualora in una classe dovesse esserci un positivo al covid, scatterebbe immediatamente l’obbligo di mascherina anche al banco per tutti i compagni e la quarantena per la classe o l’intero plesso scolastico a seconda di quel che decideranno i dipartimenti di sanità pubblica e per il periodo di tempo limitato allo svolgimento dell’indagine epidemiologica. «L’obiettivo – spiega la consigliera regionale – è consentire la continuità didattica anche se dovesse verificarsi un contagio all’interno di una classe».

Ultimo tema sollevato da Katia Tarasconi in Commissione riguarda la necessità di allargare l’attenzione agli ambienti extrascolastici altrimenti si rischia di vanificare gli sforzi fatti nelle scuole: «Trasporti, attività sportive, oratori, luoghi di ritrovo. Lo sforzo deve essere quello di rendere questi ambienti sicuri, e molto dipenderà da quanto riusciremo a far capire alle ragazze e ai ragazzi l’importanza del distanziamento e dell’igiene, ma anche l’importanza di segnalare tempestivamente le proprie condizioni in caso di febbre». Un punto, quest’ultimo, su cui si è detto d’accordo anche l’assessore Donini che ha concluso auspicando che nei primi giorni di questo nuovo anno scolastico gli insegnanti si dedichino anche a formare i propri studenti sui comportamenti da tenere e sull’importanza di farlo. Solo così riusciremo a convivere con la pandemia e uscirne.

Il Trebbia ha bisogno d’acqua. Tarasconi: “Servono accordi certi con la Liguria per la diga del Brugneto”

«E’ necessario risolvere il problema dell’acqua in Trebbia che, quest’anno più che mai, si presenta in tutta la sua rilevanza, tra esigenze dell’agricoltura ed esigenze turistiche con l’aumento vertiginoso dei bagnanti in questo periodo estivo post lockdown».  Un problema che si ripresenta ogni stagione calda ormai da decenni e che la consigliera regionale del Pd Katia Tarasconi ha portato oggi a Bologna in Assemblea legislativa con un’interrogazione a risposta immediata rivolta all’assessore all’Ambiente Irene Priolo.  E quella di presentare oggi l’interrogazione non è stata una scelta casuale; nel primo pomeriggio proprio della giornata odierna in teoria dovevano chiudersi i “rubinetti” della diga del Brugneto per l’estate in corso: sono finiti i 2,5 milioni di metri cubi d’acqua che, da concessione in vigore, vincolano l’impianto ligure a rilasciare acqua in Trebbia; acqua da cui dipende la sopravvivenza del fiume, dei suoi utenti e del mondo agricolo dell’intera vallata piacentina. Fortunatamente per questa estate è già stata stabilita una ulteriore apertura della diga sul versante emiliano per un totale di 1,5 milioni di metri cubi d’acqua in più in modo da consentire le attività agricole e la vita del fiume. Ma non basta, secondo Katia Tarasconi: «Non possiamo certo dipendere da trattative e valutazioni che possono cambiare ogni anno, lasciando nell’incertezza un intero territorio la cui stessa vita dipende dal fiume. Serve un piano preciso, concordato e condiviso che si basi sulle reali esigenze della vallata e sull’altrettanto reale capacità dell’invaso del Brugneto di far fronte a tali esigenze». Esigenze che, secondo la consigliera del Pd, equivalgono a circa 6 milioni di metri cubi d’acqua a stagione. Ben oltre, dunque, i 2,5 milioni stabiliti da una concessione che risale ormai al lontano 1987.

«Il settore agroalimentare della val Trebbia – prosegue Tarasconi – potrebbe gestire le proprie attività programmando in modo oculato gli investimenti senza l’apprensione ossessiva del rispetto delle norme ambientali sui deflussi minimi che spesso nel pieno della stagione irrigua pongono il tema dell’assurda competizione fra il rispetto delle norme ambientali e la certezza dell’approvvigionamento alimentare dei territori. E’ quindi importante in tempi brevi dare una risposta definitiva a questo settore trainante dell’economia: gli agricoltori non meritano di rimanere senza risposte da parte delle istituzioni». Risposte certe, dunque. E’ quel che chiede la consigliera dem alla Giunta regionale; risposte certe sia per la stagione in corso sia per il futuro.

Nel suo intervento in aula, la consigliera Tarasconi ha aggiunto una riflessione legata al periodo attuale: «La val Trebbia dopo il lock down nei fine settimana è stata invasa dai frequentatori che si sono riversati nel fiume. Cercavano quel paesaggio stupendo di montagna e l’acqua. E’ un nuovo turismo di corto raggio rinato che pone nuove sfide ai Sindaci chiamati a rispondere a nuove istanze di accoglienza turistica. Anch’essi sono parte di un nuovo progetto di vallata se sapremo assicurare il bene primario su cui si regge e cioè l’acqua».

L’assessore Priolo, nella sua risposta, ha assicurato di avere a cuore la questione di aver già firmato una convenzione con la Regione Liguria che ha allungato i tempi rispetto agli accordi precedenti e che dunque assicura al territorio piacentino per i prossimi cinque anni un rilascio di circa 4 milioni di metri cubi d’acqua ogni stagione estiva e che, già quest’anno, è probabile che si arrivi ad ottenere 5 milioni di metri cubi.  Sempre Irene Priolo ha aggiunto che non appena si insedierà la nuova Giunta (in Liguria si vota a settembre per le Regionali) verranno aperte trattative per arrivare ad ottenere il reale fabbisogno d’acqua della Valtrebbia ogni estate.

Centri diurni per anziani. Tarasconi: “situazione insostenibile, devono riaprire”

«La situazione degli anziani non autosufficienti a Piacenza è insostenibile». Non usa mezzi termini la consigliera regionale del Pd Katia Tarasconi che ora, venti giorni dopo l’uscita dell’ordinanza con cui il presidente Stefano Bonaccini consentiva la riapertura dei centri diurni, torna su un tema che riguarda centinaia di famiglie della città capoluogo e della provincia. Un tema delicato che ha già fatto registrare l’accorato appello di numerosi piacentini costretti a fare i salti mortali per gestire i propri parenti anziani, a casa ormai da cinque mesi ovvero da quando il Comune di Piacenza, primo in Regione, ha disposto la chiusura delle strutture per l’emergenza covid appena prima che esplodesse in tutta la sua tragicità. Era febbraio. «All’epoca è stata una scelta sacrosanta che senz’altro ha contribuito a salvare vite – sottolinea Tarasconi – ma ora davvero non si può più aspettare: ci sono famiglie che non sanno come organizzarsi, ci sono anziani non autosufficienti che, in assenza delle loro attività nei centri, ne stanno risentendo anche in termini di salute. Siamo al 7 luglio, l’ordinanza regionale è del 17 giugno; posso comprendere le difficoltà del momento, ma vanno accelerati i tempi». E per farlo è necessario che gli enti pubblici Comune e Ausl lavorino in coprogettazione con i gestori privati e ne valutino le proposte in base alle nuove regole sul distanziamento sociale. «Le proposte ci sono – spiega la consigliera Tarasconi -, i progetti sono pronti. Certo, i costi per le pubbliche amministrazioni sono più elevati ma non potrebbe essere diversamente considerate le nuove disposizioni per prevenire i contagi. In ogni caso, se si aspetta ancora a lungo, i costi sociali rischiano di essere ben più alti. Basti pensare a quelli che oggi devono sostenere tutti coloro che hanno un anziano parente di cui occuparsi giorno e notte, e che sono tornati al lavoro dopo il lockdown, magari senza ferie perché già consumate in quel periodo. Non c’è alternativa, è una strada che va percorsa». Come in effetti è accaduto a Roveleto di Cadeo, dove nelle scorse ore ha riaperto i battenti il centro di via Toscana. «Anche a Piacenza i centri diurni devono riaprire al più presto – conclude Tarasconi – Ormai è passato troppo tempo da quando è possibile riaprirli grazie all’ordinanza regionale».

Trebbia preso d’assalto. Tarasconi: “bene per il territorio, ma il turismo va gestito”

«Una maggiore affluenza di turisti in Valtrebbia e il Valnure era prevedibile dopo il lockdown, ma non in questi termini, non con questi numeri. E’ senz’altro un bene per l’economia di un territorio come il nostro, particolarmente provato dall’emergenza covid, ma siamo di fronte a un fenomeno che va gestito in maniera diversa da come è stato fatto finora. Dobbiamo prendere atto che il nostro Trebbia e il nostro Nure sono oggi mete turistiche a tutti gli effetti, non più solo un insieme di località per gitanti della domenica; sono diventati, più di quanto non lo siano mai stati, una specie di Rimini per lombardi e per tantissimi piacentini che magari, visto il periodo, si spostano meno verso le località turistiche tradizionali, viaggiano meno, si muovono meno. Ebbene, se la Valtrebbia e la Valnure sono la Rimini piacentina, come tali vanno considerate sotto vari punti di vista, prima di tutto quello della sicurezza delle persone e della tutela dell’ambiente. E per farlo servono uomini, mezzi, risorse e pianificazione».

La consigliera regionale del Pd Katia Tarasconi parla per esperienza diretta: «Nel weekend appena trascorso ho visto gruppi di bagnanti in zone della bassa Valtrebbia in cui non si era mai visto quasi nessuno, e questo dà la misura di un trend che ha assunto proporzioni differenti rispetto agli anni passati». Un trend senz’altro positivo, ribadisce, perché «turismo significa crescita, ma solo se viene gestito in maniera corretta».

Una considerazione che si basa anche sulle numerose segnalazioni che ormai da settimane arrivano da vari comuni delle alte valli, e riportate dagli organi di informazione, dove la tortuosità delle strade, in particolare della Statale 45, rende più difficile e pericoloso il parcheggio e dove gli accessi più impervi ai fiumi rendono complicati i controlli da parte delle forze dell’ordine. Tutte caratteristiche che, da un lato, rendono il Trebbia e il Nure quello che sono, ovvero fiumi splendidi e di libero accesso (come è giusto che sia), ma che dall’altro creano problemi quando si è di fronte a una tale massa di persone che ogni weekend (ma in questo periodo anche durante la settimana) arrivano un po’ da ogni dove, soprattutto dalla Lombardia. Problemi che di fatto consistono, sottolinea Tarasconi, «nella sosta selvaggia e pericolosa lungo strade già sufficientemente pericolose e nell’immondezzaio che purtroppo molti villeggianti lasciano a fine giornata». E aggiunge: «Stiamo parlando di comportamenti che sono già vietati, lo erano ben prima dell’emergenza coronavirus, ma che diventano più problematici con l’aumento vertiginoso delle presenze».

«Occorre dunque muoversi – prosegue la consigliera regionale – per considerare queste vallate come mete turistiche vere e proprie, con flussi degni di questo nome, e attrezzarsi di conseguenza. Come a Rimini e a Riccione durante l’estate arrivano contingenti aggregati di forze dell’ordine per gestire il maggior numero di presenze, così dovrebbe avvenire nel Piacentino». E chiarisce: «Forze dell’ordine in più per garantire la sicurezza delle persone, e non certo per disincentivare il turismo».

E se questa è la prima esigenza a fronte delle decine di migliaia di bagnanti che si sono viste in queste settimane, di certo non è l’unica: «Pubbliche amministrazioni e privati dovrebbero lavorare sempre di più e sempre meglio in sinergia per calibrare i servizi e le offerte rispetto al numero crescente di turisti che hanno dimostrato di apprezzare la Valtrebbia, la Valnure e le altre vallate del Piacentino».

Fase 2. Devono dirci come ripartire, ora

Raffiche di numeri ci vengono sparate addosso da ogni dove, numeri che non si capisce come leggere perché non si conoscono gli addendi delle somme che quotidianamente occupano i titoli dei giornali e, di rimbalzo, i tweet, i post su Facebook, i video su Instagram e YouTube. Numeri su positivi, negativi, falsi positivi, falsi negativi, quando gli unici che avrebbero una qualche parvenza di significato logico sono quelli sui ricoveri negli ospedali, i numeri dei posti letto disponibili nelle terapie intensive e, naturalmente, i numeri del dramma: i nostri morti, che solo a Piacenza sono più del doppio di quelli dell’intero Lazio.
E’ dal numero dei ricoveri in terapia intensiva in rapporto ai posti disponibili che si potrebbe capire se il nostro sistema sanitario è o non è in grado di reggere l’impatto. Un impatto che ha rischiato di essere fatale non più tardi di qualche settimana fa, e lo sappiamo bene tutti; il sistema ha rischiato di collassare quando l’epidemia era all’apice e quando ancora non si aveva la più pallida idea di come affrontarla. E se ha retto lo si deve solo ed esclusivamente allo spirito di sacrificio di medici e infermieri, categorie professionali e umane la cui indispensabilità assoluta è diventata tragicamente lampante agli occhi di tutti, con buona pace dei tagli continui alla preziosa Sanità pubblica.

Sulla base di quei numeri impressionanti (zero posti in terapia intensiva, perché è capitato che ci si arrivasse davvero in certi giorni) le autorità hanno deciso il lockdown, ed è stato giusto così perché non c’era altro da fare.

Ma era troppo tardi, e ormai lo sappiamo tutti: inutile nascondersi dietro al solito dito (mignolo, peraltro), inutile continuare a ripetere il refrain dell’emergenza imprevista e imprevedibile, inutile tentare di mettere a tacere le critiche in nome della pandemia da affrontare. E’ inutile perché abbiamo tempo di pensare, perché siamo tutti in casa agli arresti domiciliari ma i cervelli sono liberi, ed è giusto dire a chiare lettere che la sottovalutazione del pericolo ha ammazzato persone. Punto e stop. Niente dolo, per carità, e niente toni forcaioli ma questa è la realtà dei fatti e chi oggi è nella stanza dei bottoni dovrà renderne conto a bufera passata. Il ritardo è una concausa delle morti.

E parlo di concausa perché la sottovalutazione ad ogni livello (da quella di chi prendeva aperitivi a quella di chi riempiva gli stadi, da quella di chi sfotteva gli spaventati a quella di chi tardava ad usare il pugno duro per non ledere interessi che oggi rischiano purtroppo di essere lesi in modo irreparabile) si accompagna alla causa vera e propria di questa strage planetaria: la dabbenaggine criminale di chi a quanto pare maneggiava troppo allegramente cocktail virulenti nell’ormai famigerato laboratorio di Wuhan e l’altrettanto criminale silenzio del governo cinese sul numero dei contagi a inizio epidemia e di conseguenza sul potenziale pericolo globale provocato da quello che ormai sembra essere il più clamoroso errore umano della storia moderna.

Ora però i numeri sui ricoveri in terapia intensiva fortunatamente sono diversi, ora si guarisce di più, ora si è capito meglio come curarsi a casa, ora la situazione negli ospedali è leggermente migliore. Siamo ancora in allarme rosso, la guardia va tenuta altissima per non vanificare gli sforzi, ma il sacrificio collettivo e la rinunzia totale ad ogni più basilare libertà individuale stanno dando i loro primi e acerbi frutti. E andrebbe detto.

Invece prosegue la raffica di numeri confusi sui contagi: una specie di countdown che però non arriva mai a zero e, diciamolo, difficilmente arriverà a zero in tempi compatibili con il ritorno alla vita attiva da parte di tutti noi.

E qual è il risultato sulla pubblica opinione sempre più social? Hashtag #restiamoacasaineterno
Guai iniziare a parlare di come mandare avanti la baracca, guai parlare di come far mangiare i nostri figli, di come pagare i dipendenti, di come produrre reddito. Bisogna continuare a ripetere – come un mantra – di restare a casa, blindati, murati vivi, magari affacciandoci alla finestra ogni ora per sfogarci un po’ lanciando improperi verso qualche sconosciuto a passeggio senza cane, verso gli odiati runner (ormai scomparsi), verso qualche bambino di città per mano alla mamma, ormai rattrappito e rincoglionito di Playstation.
Guai parlare di fase due: è troppo presto!

Pare evidente che ci sia ancora chi non ha capito che ogni giorno che passa senza un piano preciso, senza un progetto chiaro, senza una modalità condivisa – magari con una differenziazione tra un territorio e l’altro – è un giorno in più verso il baratro di una crisi economica di cui oggi sembrano non rendersi conto solo coloro che ogni 27 del mese, pur restando a casa, percepiscono una pensione o uno stipendio, magari pubblico.

Leggo ogni giorno un racconto trasversale fatto di post, commenti, interventi, nel quale si intravede chiaramente il malcelato tentativo di voler dividere il mondo in due: chi pretende di parlare di ripartenza è brutto, cattivo e irresponsabile, mentre chi ancora inneggia alla chiusura totale a tempo indeterminato è responsabile, buono d’animo e bello.

No, signori miei, non è così. Tutti abbiamo a cuore le nostre vite e quelle di chi amiamo, tutti soffriamo di fronte alla malattia e alla morte, tutti stiamo facendo sacrifici fino a poco tempo fa inimmaginabili, ma ora non possiamo più permetterci di considerare la ripartenza un tema secondario, un tema da affrontare “dopo”. La paura che non esista più un dopo vagamente simile al prima, sta diventando drammaticamente concreta. E arriverà il momento in cui tra la possibilità di contagiarsi e la certezza di fallire, le persone sceglieranno la prima opzione. Perché gli esseri umani funzionano così.

La fase uno è passata e siamo già nella fase due, ci siamo dentro in pieno, dobbiamo esserci dentro e dobbiamo esserne consapevoli.

Questa cosa i nostri governanti devono capirla bene e devono farci capire che l’hanno capita. Perché, ad oggi, così non è. Assistiamo quotidianamente a un’infinita, melodrammatica, teatrale serie di chiacchiere condite da raccomandazioni. Non se ne può più, non ci interessano più le raccomandazioni: abbiamo capito, diamine, non siamo tutti bambini idioti; le città sono deserte e i droni lo possono confermare.

Ma si badi bene, fase due (ovvero la fase in cui la lotta ai contagi si lega al sostegno all’economia e alla doverosa riduzione delle limitazioni alle libertà personali) non è sinonimo di irresponsabilità: tutti ormai, soprattutto in questo territorio, abbiamo compreso a fondo la situazione, abbiamo assorbito la necessità di adottare nuovi comportamenti, nuove attenzioni, nuove procedure. Fase due significa piantarla con la menata del restiamo a casa, che ormai è chiara anche ai sassi, e iniziare a parlare di come fare a rimetterci in pista. Non serve che i politici ci dicano semplicemente che dobbiamo rimetterci in pista: ci devono dire COME. Come facciamo? Cosa dobbiamo fare? Chi ha un’attività, cosa deve fare? Che misure deve mettere in campo? Che nuove regole ci sono? Che investimenti vanno fatti per adeguarsi? Che prospettive ci sono per chi ha la responsabilità di pagare dei dipendenti? E non mi riferisco solo agli stabilimenti produttivi e alle grandi industrie ma ai pubblici esercizi, ai ristoranti, ai bar, ai negozi, alle società sportive, agli studi professionali, alle botteghe artigiane, ai locali, a tutto il mondo dell’intrattenimento, alle attività all’aria aperta (che oggi, per cortesia, non ha più senso vietare; basta far rispettare la nuova madre di tutte le regole che ormai ci sogniamo anche di notte: il famoso distanziamento sociale).

Siamo partiti il 24 febbraio e ora ci hanno parlato del 3 maggio come del giorno in cui finirà la quarantena. Si vuole evitare il delirio da gabbie aperte in vista del 25 aprile e del Primo maggio, e siamo d’accordo, è comprensibile. Ma il 3 maggio, santo cielo, è praticamente adesso. Possibile che non sia ancora stato detto come muoversi, cosa fare?
E’ una cosa che grida vendetta, signori. E’ inaccettabile.

La regola è sempre la stessa, per tutto: senza un piano non si va da nessuna parte. E questo vale al netto degli imprevisti, al netto delle mille variabili che un’emergenza mette sul tavolo. Preso atto che non abbiamo avuto il tempo (e la capacità!) di prepararci ieri ad affrontare quel che sta accadendo oggi, dobbiamo necessariamente imparare mentre agiamo. Però dobbiamo agire.

Ormai da due mesi stiamo affrontando una situazione senza precedenti a livello planetario, il sistema – nazionale e internazionale – è alle corde e il nostro territorio è l’occhio del ciclone. Dopo la Cina, siamo stati i primi a sperimentare le conseguenze devastanti del coronavirus sulla nostra pelle e se non tracciamo una rotta chiara saremo gli ultimi a scrollarcele di dosso, sempre che riusciamo a farlo.

La rotta deve essere tracciata adesso.