Raffiche di numeri ci vengono sparate addosso da ogni dove, numeri che non si capisce come leggere perché non si conoscono gli addendi delle somme che quotidianamente occupano i titoli dei giornali e, di rimbalzo, i tweet, i post su Facebook, i video su Instagram e YouTube. Numeri su positivi, negativi, falsi positivi, falsi negativi, quando gli unici che avrebbero una qualche parvenza di significato logico sono quelli sui ricoveri negli ospedali, i numeri dei posti letto disponibili nelle terapie intensive e, naturalmente, i numeri del dramma: i nostri morti, che solo a Piacenza sono più del doppio di quelli dell’intero Lazio.
E’ dal numero dei ricoveri in terapia intensiva in rapporto ai posti disponibili che si potrebbe capire se il nostro sistema sanitario è o non è in grado di reggere l’impatto. Un impatto che ha rischiato di essere fatale non più tardi di qualche settimana fa, e lo sappiamo bene tutti; il sistema ha rischiato di collassare quando l’epidemia era all’apice e quando ancora non si aveva la più pallida idea di come affrontarla. E se ha retto lo si deve solo ed esclusivamente allo spirito di sacrificio di medici e infermieri, categorie professionali e umane la cui indispensabilità assoluta è diventata tragicamente lampante agli occhi di tutti, con buona pace dei tagli continui alla preziosa Sanità pubblica.
Sulla base di quei numeri impressionanti (zero posti in terapia intensiva, perché è capitato che ci si arrivasse davvero in certi giorni) le autorità hanno deciso il lockdown, ed è stato giusto così perché non c’era altro da fare.
Ma era troppo tardi, e ormai lo sappiamo tutti: inutile nascondersi dietro al solito dito (mignolo, peraltro), inutile continuare a ripetere il refrain dell’emergenza imprevista e imprevedibile, inutile tentare di mettere a tacere le critiche in nome della pandemia da affrontare. E’ inutile perché abbiamo tempo di pensare, perché siamo tutti in casa agli arresti domiciliari ma i cervelli sono liberi, ed è giusto dire a chiare lettere che la sottovalutazione del pericolo ha ammazzato persone. Punto e stop. Niente dolo, per carità, e niente toni forcaioli ma questa è la realtà dei fatti e chi oggi è nella stanza dei bottoni dovrà renderne conto a bufera passata. Il ritardo è una concausa delle morti.
E parlo di concausa perché la sottovalutazione ad ogni livello (da quella di chi prendeva aperitivi a quella di chi riempiva gli stadi, da quella di chi sfotteva gli spaventati a quella di chi tardava ad usare il pugno duro per non ledere interessi che oggi rischiano purtroppo di essere lesi in modo irreparabile) si accompagna alla causa vera e propria di questa strage planetaria: la dabbenaggine criminale di chi a quanto pare maneggiava troppo allegramente cocktail virulenti nell’ormai famigerato laboratorio di Wuhan e l’altrettanto criminale silenzio del governo cinese sul numero dei contagi a inizio epidemia e di conseguenza sul potenziale pericolo globale provocato da quello che ormai sembra essere il più clamoroso errore umano della storia moderna.
Ora però i numeri sui ricoveri in terapia intensiva fortunatamente sono diversi, ora si guarisce di più, ora si è capito meglio come curarsi a casa, ora la situazione negli ospedali è leggermente migliore. Siamo ancora in allarme rosso, la guardia va tenuta altissima per non vanificare gli sforzi, ma il sacrificio collettivo e la rinunzia totale ad ogni più basilare libertà individuale stanno dando i loro primi e acerbi frutti. E andrebbe detto.
Invece prosegue la raffica di numeri confusi sui contagi: una specie di countdown che però non arriva mai a zero e, diciamolo, difficilmente arriverà a zero in tempi compatibili con il ritorno alla vita attiva da parte di tutti noi.
E qual è il risultato sulla pubblica opinione sempre più social? Hashtag #restiamoacasaineterno
Guai iniziare a parlare di come mandare avanti la baracca, guai parlare di come far mangiare i nostri figli, di come pagare i dipendenti, di come produrre reddito. Bisogna continuare a ripetere – come un mantra – di restare a casa, blindati, murati vivi, magari affacciandoci alla finestra ogni ora per sfogarci un po’ lanciando improperi verso qualche sconosciuto a passeggio senza cane, verso gli odiati runner (ormai scomparsi), verso qualche bambino di città per mano alla mamma, ormai rattrappito e rincoglionito di Playstation.
Guai parlare di fase due: è troppo presto!
Pare evidente che ci sia ancora chi non ha capito che ogni giorno che passa senza un piano preciso, senza un progetto chiaro, senza una modalità condivisa – magari con una differenziazione tra un territorio e l’altro – è un giorno in più verso il baratro di una crisi economica di cui oggi sembrano non rendersi conto solo coloro che ogni 27 del mese, pur restando a casa, percepiscono una pensione o uno stipendio, magari pubblico.
Leggo ogni giorno un racconto trasversale fatto di post, commenti, interventi, nel quale si intravede chiaramente il malcelato tentativo di voler dividere il mondo in due: chi pretende di parlare di ripartenza è brutto, cattivo e irresponsabile, mentre chi ancora inneggia alla chiusura totale a tempo indeterminato è responsabile, buono d’animo e bello.
No, signori miei, non è così. Tutti abbiamo a cuore le nostre vite e quelle di chi amiamo, tutti soffriamo di fronte alla malattia e alla morte, tutti stiamo facendo sacrifici fino a poco tempo fa inimmaginabili, ma ora non possiamo più permetterci di considerare la ripartenza un tema secondario, un tema da affrontare “dopo”. La paura che non esista più un dopo vagamente simile al prima, sta diventando drammaticamente concreta. E arriverà il momento in cui tra la possibilità di contagiarsi e la certezza di fallire, le persone sceglieranno la prima opzione. Perché gli esseri umani funzionano così.
La fase uno è passata e siamo già nella fase due, ci siamo dentro in pieno, dobbiamo esserci dentro e dobbiamo esserne consapevoli.
Questa cosa i nostri governanti devono capirla bene e devono farci capire che l’hanno capita. Perché, ad oggi, così non è. Assistiamo quotidianamente a un’infinita, melodrammatica, teatrale serie di chiacchiere condite da raccomandazioni. Non se ne può più, non ci interessano più le raccomandazioni: abbiamo capito, diamine, non siamo tutti bambini idioti; le città sono deserte e i droni lo possono confermare.
Ma si badi bene, fase due (ovvero la fase in cui la lotta ai contagi si lega al sostegno all’economia e alla doverosa riduzione delle limitazioni alle libertà personali) non è sinonimo di irresponsabilità: tutti ormai, soprattutto in questo territorio, abbiamo compreso a fondo la situazione, abbiamo assorbito la necessità di adottare nuovi comportamenti, nuove attenzioni, nuove procedure. Fase due significa piantarla con la menata del restiamo a casa, che ormai è chiara anche ai sassi, e iniziare a parlare di come fare a rimetterci in pista. Non serve che i politici ci dicano semplicemente che dobbiamo rimetterci in pista: ci devono dire COME. Come facciamo? Cosa dobbiamo fare? Chi ha un’attività, cosa deve fare? Che misure deve mettere in campo? Che nuove regole ci sono? Che investimenti vanno fatti per adeguarsi? Che prospettive ci sono per chi ha la responsabilità di pagare dei dipendenti? E non mi riferisco solo agli stabilimenti produttivi e alle grandi industrie ma ai pubblici esercizi, ai ristoranti, ai bar, ai negozi, alle società sportive, agli studi professionali, alle botteghe artigiane, ai locali, a tutto il mondo dell’intrattenimento, alle attività all’aria aperta (che oggi, per cortesia, non ha più senso vietare; basta far rispettare la nuova madre di tutte le regole che ormai ci sogniamo anche di notte: il famoso distanziamento sociale).
Siamo partiti il 24 febbraio e ora ci hanno parlato del 3 maggio come del giorno in cui finirà la quarantena. Si vuole evitare il delirio da gabbie aperte in vista del 25 aprile e del Primo maggio, e siamo d’accordo, è comprensibile. Ma il 3 maggio, santo cielo, è praticamente adesso. Possibile che non sia ancora stato detto come muoversi, cosa fare?
E’ una cosa che grida vendetta, signori. E’ inaccettabile.
La regola è sempre la stessa, per tutto: senza un piano non si va da nessuna parte. E questo vale al netto degli imprevisti, al netto delle mille variabili che un’emergenza mette sul tavolo. Preso atto che non abbiamo avuto il tempo (e la capacità!) di prepararci ieri ad affrontare quel che sta accadendo oggi, dobbiamo necessariamente imparare mentre agiamo. Però dobbiamo agire.
Ormai da due mesi stiamo affrontando una situazione senza precedenti a livello planetario, il sistema – nazionale e internazionale – è alle corde e il nostro territorio è l’occhio del ciclone. Dopo la Cina, siamo stati i primi a sperimentare le conseguenze devastanti del coronavirus sulla nostra pelle e se non tracciamo una rotta chiara saremo gli ultimi a scrollarcele di dosso, sempre che riusciamo a farlo.
La rotta deve essere tracciata adesso.