Sconcerto e quasi rassegnazione di fronte ad uno dei più grandi scandali della storia dello sport
Due italiani: il maresciallo del Nas Renzo Ferrante e l’ex compagno di squadra Filippo Simeoni. Altri undici suoi ex compagni all’Us Postal: Frankie Andreu, Michael Barry, Tom Danielson, Tyler Hamilton, George Hincapie, Floyd Landis, Levi Leiphimer, Stephen Swart, Christian Vande Velde, Jonathan Vaughters e David Zabriskie. Più tredici ulteriori persone, che portano a ventisei il conto degli accusatori di un re ormai nudo.
Il fatto che un’inchiesta così approfondita e completa provenga dagli Stati Uniti, il suo Paese, quello che fino a ieri l’avevo difeso e in alcuni casi continua a farlo (vedi gli inviti alle gare di triathlon), il “Paese un tempo ritenuta la culla dell’individualismo più sfrenato e del giustificazionismo totale” (cit. “l’Editoriale” di Franco Arturi sulla Gazzetta di oggi), lascia ormai adito a ben pochi dubbi.
Lance Armstrong, l’uomo che visse due volte, è uno, se non il più grande, dei più grandi truffatori della storia del ciclismo e di tutto lo sport. Lo dico con qualcosa di più che la morte nel cuore, per la dedica all’amico Casartelli; per quello splendido spot della Nike uscito in occasione delle Olimpiadi di Pechino, in cui, sulle note di “I’ve got soul but I’m not a soldier”, in un climax di emozioni Armstrong compare prima quasi morente in un letto di ospedale, e poi straripante sulle montagne del Tour.
I media mi sembrano quasi rassegnati di fronte a questa notizia, quasi restii a darle il peso che purtroppo merita, e io allo stesso modo mi sento: ovviamente tradito in modo crudele ma ormai rassegnato, un “Livestrong” e un’altra epoca del ciclismo buttati nel cesso.
Domanda (forse) retorica: Lance, perché? Conclusione d’obbligo: ciclismo, pulizia ed umanizzazione ora o davvero mai più.