Riforma Costituzionale. Le ragioni del No

I PUNTI DEL NO DEL CENTRODESTRA ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE

UNA RIFORMA CHE DIVIDE. La Costituzione costituisce l’identità politica di un popolo che, guardando ad essa, si riconosce come comunità unita in un destino storico. La Costituzione è il punto di incontro tra le generazioni passate presenti e future, ed è ad un tempo il frutto di una volontà di convivere e l’origine di una volontà di continuare ad esistere. Per questo essa vive di legittimazione: giuridica, politica e culturale. Così è stato per la Costituzione del 48, approvata quasi all’unanimità e che per questo è stata la Costituzione di tutti. La riforma costituzionale portata avanti dal Governo Renzi impone invece una Costituzione che divide anziché unire, che lacera anziché cucire, che porta le cicatrici di una violenza di una parte sull’altra, senza approntare lo spirito per rimarginare le ferite: questa riforma ha dunque già fallito.
UNA LACERAZIONE DELEGITTIMANTE. Con il prossimo e ormai certo referendum costituzionale, i cittadini decideranno il destino della propria Costituzione e del suo significato. La storia dell’Italia è una storia di tentativi di condivisione e di tentazioni di particolarismo. Nel momento in cui ci si appresta a cambiare la Costituzione bisogna necessariamente chiedersi se la riforma delle istituzioni in atto, per il merito dei suoi contenuti, per il modo in cui ci si arriva, per le conseguenze che essa produrrà, aggiungerà un tassello sulla strada dell’aggregazione o rappresenterà l’ennesima lacerazione delegittimante, con l’aggravio che essa parte dai livelli apicali dell’ordinamento. Ebbene, dinanzi a questa domanda, nel caso della riforma in atto, la spaccatura, le divisioni, e, quindi, la conseguente delegittimazione, sono davanti agli occhi di tutti.
LA MAGGIORANZA FORMALE NON BASTA. Proprio sulla base di quanto affermato, oggi non sono solo in discussione questo o quell’aggiustamento tecnico, che peraltro hanno suscitato tante perplessità tra moltissimi costituzionalisti; no, oggi in discussione è il destino che queste scelte stanno preparando. Oggi in discussione è la legittimità storico-politica dell’operazione in corso. Perché tale legittimità, se viziata, può corrodere il senso di appartenenza ad un comune destino politico del popolo italiano. Oggi, in Italia, la maggioranza formale non basta a riformare le istituzioni. Non si tratta di una considerazione di ordine generale. Il rispetto della costituzione formale è certo sempre la bussola di ogni cambiamento. È necessario, ma non necessariamente sufficiente. E oggi, in Italia, non lo è.
NESSUN CLIMA DI PACIFICAZIONE. Non lo è innanzitutto perché decenni di divisioni, prima ideologiche, tra comunismo e anticomunismo, e poi, negli ultimi vent’anni, politiche, tra schieramenti incapaci di riconoscersi l’onore delle armi e di riconoscere la cornice comune di regole da rispettare comunque, rendevano la necessità di una pacificazione come una priorità assoluta, pena la dissoluzione definitiva del senso della convivenza. Ma le forze che hanno portato avanti la riforma hanno di fatto sbarrato la strada al dialogo e alla pacificazione: ciò che doveva portare a costruire un ponte tra maggioranza e opposizione, si è rivelato invece una sorta di forzatura unilaterale, e il solo ponte di dialogo creato è stato quello tra la maggioranza del Partito democratico e l’opposizione interna allo stesso Partito democratico, o alla coalizione di Governo.
LA RIFORMA DI UNA MAGGIORANZA “SULLA CARTA”, FRUTTO DI UNA LEGGE ELETTORALE ILLEGITTIMA. Il rispetto della costituzione formale non è quindi in questo caso sufficiente perché questa non è la riforma di una maggioranza che, seppur limitata, potrebbe ancora risultare accettabile; questa in realtà è la riforma di una minoranza che, grazie alla sovra rappresentazione parlamentare fornita da una legge elettorale dichiarata (anche per questo motivo) illegittima dalla Corte costituzionale, è divenuta maggioranza solo sulla carta. È vero, la Consulta ha fatto salvo l’attuale Parlamento, malgrado esso fosse stato eletto con una legge incostituzionale, ma non bisogna dimenticare su quali ragioni essa è pervenuta a tali conclusioni. Non perché il Parlamento fosse legittimamente composto, ma perché di fronte alla costatazione drammatica del vizio delle elezioni, un valore superiore sarebbe dovuto prevalere: quello della continuità dello Stato. Questo Parlamento, insomma, è legittimato a funzionare solo in ragione dell’emergenza di salvaguardare la vita dello Stato. Ma se questa è la ragione, la legittimazione ad esistere del Parlamento attuale non è illimitata e piena. Il mandato parlamentare è dunque limitato a conservare lo Stato, e non può spingersi fino a cambiarne, con un violento colpo di mano di una minoranza che artificiosamente è divenuta maggioranza, i connotati mediante l’intervento costituzionale ai massimi livelli. Questo nei fatti si traduce in un tradimento del limitato mandato che, a seguito della sentenza della Corte, grava su questo parlamento zoppo.
IL REFERENDUM NON POTRA’ SANARE NE’ COMPENSARE UN VIZIO DI ORIGINE. Alla mancanza di legittimazione della riforma in atto non potrà sopperire nemmeno il referendum ex 138 Cost.. Quest’ultimo infatti non può essere sostitutivo di una deliberazione viziata nel suo fondamento. Non ha il potere di sanare i vizi, ma di aggiungere legittimazione a quella che già ci deve essere. Il ricorso al referendum è stato previsto sul presupposto che persino un’approvazione perfettamente legittima sul piano formale avesse bisogno di un ulteriore sostegno popolare. Il referendum non compensa, consolida. Ma non si può consolidare un vizio di origine; o meglio, consolidarlo, significherebbe perseverare nell’errore. Un danno piuttosto che una redenzione. Soprattutto se la riforma è stata costruita per la sopravvivenza di un governo e di una maggioranza privi di qualsiasi legittimazione sostanziale, come confermato dall’enfasi che è stata posta dallo stesso Presidente del Consiglio sul futuro risultato referendario, che ha grottescamente trasformato il referendum su una Costituzione che dovrebbe essere di tutti in una sorta di macro questione di fiducia su se stesso.
IL COMBINATO DISPOSTO CON LA LEGGE ELETTORALE CREA UN MOSTRO GIURIDICO. Ancor più drammaticamente lacerante, fino a rasentare la crisi costituzionale, è la sommatoria tra riforma costituzionale e riforma elettorale. Questo “combinato disposto” spiana la strada ad un orizzonte nel quale il momento più basso della legittimazione parlamentare nella storia della repubblica produce il cambiamento più radicale degli ultimi 70 anni. È una contraddizione stridente che scuote le basi del vivere civile, perché elimina le fondamenta sicure e ci consegna ad un mostro giuridico che sarà oggetto di contestazione perenne. Dal combinato disposto delle due riforme è infatti di tutta evidenza il prefigurarsi di un pregiudizio dei principi supremi della medesima Costituzione. L’“Italicum”, infatti, aggiunge all’azzeramento della rappresentatività del Senato e al centralismo che depotenzia il pluralismo istituzionale, l’indebolimento radicale della rappresentatività della Camera dei deputati. In particolare, il premio di maggioranza alla singola lista consegna la Camera nelle mani del leader del partito vincente — anche con pochi voti — nella competizione elettorale, secondo il modello dell’uomo solo al comando. Ne vengono effetti collaterali negativi anche per il sistema di checks and balances. Ne risente infatti l’elezione del Capo dello Stato, dei componenti della Corte costituzionale, del Csm. E ne esce indebolita la stessa Costituzione. Un sistema complessivo che risulterebbe quindi privo di bilanciamento, ovvero di quei pesi e contrappesi necessari per garantire l’equilibrio politico istituzionale tra poteri, e tra le diverse forze politiche in campo, a piena garanzia del popolo sovrano.
SI COLPISCONO IRRIMEDIABILMENTE IL PRINCIPIO DELLA RAPPRESENTANZA POLITICA E GLI EQUILIBRI DEL SISTEMA ISTITUZIONALE. La cancellazione della elezione diretta dei senatori, la drastica riduzione dei componenti — lasciando immutato il numero dei deputati — la composizione fondata su persone selezionate per la titolarità di un diverso mandato colpiscono irrimediabilmente il principio della rappresentanza politica e gli equilibri del sistema istituzionale. Non basta l’argomento del taglio dei costi, che più e meglio poteva perseguirsi con scelte diverse. Né basta l’intento dichiarato di costruire una più efficiente Repubblica delle autonomie, smentito dal complesso e farraginoso procedimento legislativo, e da un rapporto Stato-Regioni che solo in piccola parte realizza quegli obiettivi di razionalizzazione e semplificazione che pure erano necessari, determinando, senza valorizzare per nulla il principio di responsabilità, per contro fortissimi rischi di inefficiente e costoso neo-centralismo. Se proprio si voleva ragionare sul taglio dei costi, e sulla riduzione degli eletti, andavano magari fatte scelte più drastiche; e invece no, l’onda riformatrice del Governo continua a sopprimere libere elezioni, come nel caso delle province, il cui pasticcio è davanti agli occhi di tutti. È possibile accogliere una riforma che dia più efficienza e miglior funzionamento, che non significa “maggiore velocità”, ma razionalità, responsabilità e tutela della rappresentanza delle istituzioni democratiche. La riforma del Governo, invece, stravolge l’impianto della Costituzione del 1948, ed affronta un momento storico difficile e una pesante crisi economica concentrando il potere sull’esecutivo, producendo un impatto indiscutibile e decisivo sulla partecipazione democratica, sul pluralismo istituzionale, sulla sovranità popolare, sulla rappresentanza.
IL SUPERAMENTO DEL BICAMERALISMO PERFETTO CHE LASCIA INALTERATO IL PESO ISTITUZIONALE DELLA SECONDA CAMERA. Nel dettaglio dei contenuti della riforma, volendo riflettere brevemente sui quattro punti principali del testo, quali l’istituzione di un nuovo Senato, la garanzia di una maggiore governabilità, il nuovo procedimento legislativo e la revisione del riparto di competenze Stato e autonomie regionali e locali, non possono che risultare evidenti e clamorose perplessità. In merito al primo punto, sussistono due principali criticità: il “disordine” nelle funzioni attribuite al nuovo Senato, e l’evidente ambiguità derivante dalla nuova formulazione dell’articolo 57 della Costituzione in merito all’elezione dei senatori. Per quanto riguarda il ruolo del Senato, le diverse competenze aggiunte nel corso dell’esame parlamentare hanno nei fatti solo contribuito a determinare confusione, a conferma della più che fondata impressione che il Governo abbia voluto ottenere il superamento del bicameralismo perfetto lasciando fondamentalmente inalterato il peso istituzionale della seconda Camera.
L’AMBIGUITA’ NELL’ELEZIONE DEL NUOVO SENATO. Altra riflessione centrale è quella riguardante il nuovo articolo 57 della Costituzione che stabilisce, in modo molto ambiguo, che la designazione dei senatori dovrà avvenire da parte dei consigli regionali “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”: il termine “conformità” non lascia infatti intendere quale sia la logica che sovraintende il rapporto tra i nuovi senatori e gli elettori, introducendo quindi un ulteriore fattore di disomogeneità rispetto ad un organo che ha già una composizione fortemente disomogenea, al quale partecipano rappresentanti di enti territoriali (regioni e comuni) con funzioni molto diverse e dove per di più vi è una componente presidenziale. Non è quindi affatto chiaro come la legge bicamerale che disciplina l’elezione dei senatori, cui è demandato il compito di fissare le modalità specifiche con cui questo dovrebbe avvenire, potrà concretamente individuare delle soluzioni che possano rendere effettiva questa previsione. Peraltro, se si accetta la premessa per cui al Senato i comuni debbano essere rappresentati, non si comprende la motivazione per la quale i loro rappresentanti in Senato, non solo non debbano essere “scelti” dai cittadini, come accade per i consigli regionali, ma nemmeno dai comuni stessi, bensì dai consiglieri regionali. Pertanto, nell’ambito dell’indicazione da parte dei cittadini dei futuri senatori vengono esclusi i sindaci, che invece saranno scelti in piena autonomia da parte degli organi consiliari della Regione, con una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai senatori di provenienza dal livello regionale.
IL CAMBIAMENTO SURRETTIZIO DELLA FORMA DI GOVERNO. Quanto alle prospettive di maggiore governabilità, le modifiche alla Costituzione, che si integrano con quelle connesse al nuovo sistema elettorale per la sola Camera dei deputati, comporterebbero un cambiamento surrettizio della forma di governo che, con il tempo, porterebbe ad una sorta di “Premierato assoluto”. Un modello che, come sottolineato da diversi esperti in materia, diventerebbe preoccupante nella misura in cui risulti privo degli idonei contrappesi, la cui mancanza è aggravata dall’Italicum: vale infatti la pena di sottolineare che, nella sentenza che ha giudicato illegittima la legge elettorale, la Corte costituzionale ha chiaramente sottolineato che le ragioni della governabilità non devono comunque prevalere su quelle della rappresentatività. Ammesso pure che tale principio non sia violato dalla legge elettorale che entrerà in vigore a luglio, dovrebbe sollevare più di una preoccupazione il fatto che il nuovo sistema conceda il premio di maggioranza ad una sola lista, e che la Camera, con i suoi 630 deputati, possa senza difficoltà decidere, a maggioranza, in merito a tutte o quasi tutte le cariche istituzionali.
LE INEFFICIENZE DEL NUOVO PROCEDIMENTO LEGISLATIVO, E DELLE MODIFICHE AL RIPARTO DI COMPETENZE STATO-REGIONI-AUTONOMIE LOCALI. Interrogativi ancora più consistenti sorgono a proposito delle inefficienze tecniche che incidono in particolare sul procedimento legislativo e sul riparto di competenze Stato-Regioni. Il testo così come delineato non porterebbe affatto alla diminuzione dell’attuale pesante contenzioso fra Stato e Regioni, malgrado l’espansione dei poteri legislativi dello Stato, nel momento in cui la tecnica elencativa di ciò che spetta allo Stato o, invece, alle Regioni, appare largamente imprecisa ed incompleta. Non è vero che la competenza concorrente è stata eliminata: in molte materie, come quella “governo del territorio” rimane gattopardescamente una concorrenza tra “norme generali e comuni” statali e leggi regionali. Contemporaneamente i poteri legislativi del nuovo Senato risulterebbero configurati in maniera confusa: da questi potrebbero quindi derivare dubbi di legittimità costituzionale su molte leggi statali approvate con i diversi procedimenti previsti nel progetto di revisione costituzionale. Inoltre, la stessa riforma del Titolo V della Costituzione, così come riscritta, tornando ad accentrare materie che, nel riordino effettuato nel 2001, erano state assegnate alle Regioni, matura, a parere di molti, l’eccesso opposto, ovvero un centralismo che non è funzionale all’efficienza del sistema. Lo Stato, infatti, attraverso la clausola di supremazia (una vera e propria clausola “vampiro”) potrebbe riaccentrare qualunque competenza regionale anche in Regioni che si sono dimostrate più virtuose dello Stato stesso, contraddicendo tanto l’efficienza quanto il fondamentale principio autonomistico sancito all’articolo 5 della Costituzione, secondo il quale si dovrebbero riconoscere e promuovere le autonomie locali. Ci si avvia verso la destituzione del pluralismo istituzionale e della sussidiarietà.
IL PEGGIOR MODO DI RISCRIVERE LA CARTA DI TUTTI. A prescindere dalle questioni tecniche, è importante stigmatizzare il metodo utilizzato nel processo di riforma, da diversi esperti definito come “il peggior modo di riscrivere la Carta di tutti”: nel corso dell’esame nei due rami del Parlamento, molteplici forzature di prassi e regolamenti hanno determinato nelle Aule di Camera e Senato spaccature insanabili tra le forze politiche, giungendo al voto finale con una maggioranza racimolata e occasionale. Quello stesso Parlamento la cui composizione è deformata e alterata da un premio di maggioranza illegittimo, e che ha visto in quasi tre anni ben 244 membri (130 deputati e 114 senatori) cambiare Gruppo principalmente per sostenere all’occorrenza la maggioranza, ha infatti portato avanti la riforma, su richiesta dell’Esecutivo, utilizzando gli strumenti parlamentari acceleratori più estremi, delineando un vero e proprio sopruso nei confronti delle garanzie e delle prerogative riconosciute all’opposizione. Certamente la Costituzione del 48, che pure ha avuto un ruolo fondamentale per lo sviluppo dell’Italia, necessitava oggi di essere riformata, ma questa riforma presenta inequivocabilmente un codice genetico e dei contenuti che destituiscono la parte migliore della nostra tradizione costituzionale. Oggi il destino dell’Italia non riguarda le tecnicalità dell’organizzazione delle sue istituzioni, oggi il destino dell’Italia riguarda la scelta sul volto della Costituzione. Questa riforma non va nella direzione di affrontare le innumerevoli sfide che, come Paese, abbiamo davanti, e su cui riusciremo ad essere all’altezza, nel rispetto di tutti i cittadini, solo se la nazione continuerà ad essere il punto di riferimento dell’intero popolo, di cui la Costituzione non è solo veste giuridica, ma sintesi di posizioni più profonde in cui ognuno possa riconoscersi, ripristinando un contesto di dialogo e rispetto per operare affinché la nostra Carta fondamentale, di oggi e di domani, continui ad essere un patrimonio comune di tutto il popolo italiano.

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